Eredità e successione nelle imprese familiari
L'esperienza delle imprese familiari dimostra la necessità, in sede di successione, di elaborare un percorso consapevole orientato all'assetto manageriale.
Lo sviluppo economico è una pianta difficilissima da far spuntare, come sanno tutti
gli investitori che, nel secondo dopoguerra hanno fatto intensi sforzi per risollevare il Sud
d’Italia, o che dopo la decolonizzazione si sono dedicati allo sviluppo dei nuovi Paesi per
trarli fuori dal sottosviluppo, o coloro che dopo il magico 1989, si sono rivolti al nuovo
“Eldorado” dell’Est, ma ancora più difficile è garantirne la crescita. Ciò si evince
chiaramente dal comportamento storico-concreto dell’impresa familiare che è ancora l’essenza
più intima del capitalismo italiano.
L’eredità e la successione, nell’universo economico industriale, non assicurano
automaticamente né la crescita dimensionale né l’automatico sviluppo temporale in durata.
E questo perché “ereditare non è succedere”, come “possedere non è dirigere”. Questo
insegnamento, che viene dall’analisi della “famiglia congiunta” o della piccola proprietà
fondiaria, è rinnovato e confermato dall’esperienza dei sistemi industriali.
Laddove l’orizzonte proprietario è delineato dalla terra, i vincoli alla mobilità sono
fortissimi alla morte del capostipite fondatore.
Nulla di simile nell’industria. Ma, nondimeno, iniziano spesso i primi contrasti e s’innesca
il meccanismo endogeno autolesionistico e inconcludente che conduce al declino.
Di qui la necessità del compromesso: come garantire l’unità della successione con la
molteplicità dell’ereditarietà e delle imprese afferenti al clan.
LA SOLUZIONE NON PUO’ CHE ESSERE LA “SFAMILIARIZZAZIONE”.
Il primo passo utile può essere quello della costituzione di una holding fondata grazie
all’apporto di tutti i pacchetti azionari dei familiari e dotata di una struttura di controllo e di
coordinamento grazie a cui accedere ai mercati finanziari e stringere alleanze strategiche. Oppure
costituire un’accomandita che, ancor più, accentra i meccanismi di controllo.
Ciò che occorre sottolineare è il fatto che l’esperienza delle imprese familiari dimostra la
necessità, allorquando la costellazione di universi culturali si amplia e si diversifica, di elaborare
un più alto e consapevole livello di riferimento manageriale: esso deve essere collettivo quanto
alla sua progettazione, ma unitario quanto all’indicazione degli obiettivi strategici. Qui si misura
il patto tra azionisti familiari e tecno-struttura manageriale.
Riuscirà il “capitalismo familiare italiano” dopo aver saputo resistere abbastanza
bene alle sfide della concorrenza globale e del mercato unico aperto, pur giocando con
diverse palle al piede, saprà scavallare con successo questa follia delle barriere daziarie,
senza fondamento economico, che proviene dagli USA? Fin’ora il capitalismo familiare ha
garantito la crescita attraverso uno specifico ma non inconsueto modello di sviluppo. Ma l’ora è
suonata. Trasformarsi o perire, insomma, se si vuol crescere in dimensioni e in profitti. Si tratta si
di consolidare, ma soprattutto di aprire un nuovo capitolo delle strategie della crescita, peraltro in
un mondo attraversato da un pericoloso tumulto geo-politico e una schizofrenica guerriglia
commerciale.
Ed è a questo punto che il futuro delle imprese familiari diviene pieno di incognite e di
speranze. Ancora e sempre, dunque, un problema di classe dirigente.
Tommaso Basileo