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Il nanismo aziendale “non è bello”

Le cause della scarsa presenza delle grandi imprese in Italia vanno ricercate, prevalentemente, nei fattori di natura culturale che caratterizzano il nostro Habitat imprenditoriale.

Perché in Italia, paese che ha pur avuto un processo lungo di avvicinamento
all’industrializzazione e poi una rapidissima crescita, esistono poche grandi imprese, così
come siamo abituati a ritrovare negli altri grandi paesi industrializzati?
La domanda non è oziosa, anzi riveste un’importanza cruciale nell’odierno contesto
competitivo, da cui emerge con sempre maggiore evidenza la rilevanza della grande dimensione
per l’innovazione tecnologica e organizzativa, per migliorare continuamente la produttività, per
l’efficienza del lungo periodo, per l’implementazione di reti di servizio ai produttori e ai
consumatori.
Le cause della scarsità della presenza delle grandi organizzazioni economiche nel nostro
paese piuttosto che in fattori di natura strutturale (dimensioni di mercati, fragilità tecnologiche
ecc.), va ricercata, secondo me, in fattori di natura culturale, nella fisionomia culturale, che
emergono in tutta evidenza soprattutto se si esaminamo i problemi in forma comparata.
Il problema più evidente è rappresentato dalla scarsissima presenza in Italia di una
cultura dell’organizzazione, che è fondamentale per dar vita alle grandi imprese. Infatti i fattori
della regolazione, del controllo, dell’innovazione e dello sviluppo possono affermarsi
irreversibilmente soltanto laddove emerge una capacità direttiva degli uomini e delle cose
misurata in termini di grandi numeri e di grandi quantità, quali che siano le forme con cui tale
capacità si concretizza. E tali capacità si sono sviluppate nei sistemi industriali o attraverso la
trasmissione, agli uomini dell’impresa, di una solida cultura burocratica, oppure attraverso la
creazione di una “filiera tecnologica” che per la sua stessa natura impone l’implementazione
dell’organizzazione. Inoltre è stata essenziale per la fisionomia culturale della classe dirigente, per
assolvere ruoli “economico-direttivi” - un’affermazione di status non tanto nelle professioni
liberali, quanto nelle discipline e nelle attività scientificho-tecniche e amministrative.
La situazione italiana è a questo proposito assai singolare: la tradizione corporativa che ha
fondato la cultura delle professioni si è presentata nell’impresa separatamente dalla più recente
tradizione manageriale orientata al mercato e all’incertezza.
Se si pensa che in Italia solo recentemente le discipline tecniche e manageriali hanno
successo tra i figli della classe dirigente, ben comprendiamo la criticità della nostra situazione e
quanto profonde siano le basi culturali della cosiddetta mentalità “anticapitalista” nel nostro
paese.
Permane, quindi, per queste ragioni di fondo una diffusa tendenza a ottimizzare il
profitto aziendale nella piccola e media dimensione, con lo scopo di consentire alla famiglia
proprietaria di evitare il confronto con il mercato borsistico con l’acquisizione di capitali
extra-familiari, altrimenti indispensabili nel caso dell’aumento della dimensione di scala. Una
struttura di intermediari bancari fortemente preposta al controllo del mercato dei capitali e uno
Stato superindebitato (che non riesce neppure a regolare i suoi debiti verso le imprese in tempi
ragionevoli) ha ancora di più incrementato questa tendenza favorendo, più che
l’autofinanziamento, l’indebitamento e la conseguente penalizzazione della grande dimensione.
In un paese in cui i meccanismi di mercato sono giunti ad affermazione tardi, dopo aver
incrociato deviazioni tossiche come il lascito corporativo e l’autarchia, tale situazione è
pienamente comprensibile. Così come sono comprensibili anche le incognite che si addensano sul
sistema davanti alle future sfide cui sarà sottoposto.
La più grande è stata quella della competizione globale, che il nostro sistema di mini-
aziende è riuscito a superare con un buon grado di flessibilità, resilienza e capacità di

adattamento, nonostante gran parte dei rapporti inter-organizzativi è ancora sottratta alla
concorrenza, attraverso il validissimo strumento dei Distretti produttivi. Certo, lo Tsunami
finanziario 2008 ha fatto uscire dal mercato più di 350mila piccole imprese. Di qui la rilevanza di
tenere a mente quanto sia importante cercare al più presto di superare i ritardi tecnologici e
“ambientali” determinati dalla non prevalenza delle grandi organizzazioni economiche.
Lo spostamento sulle frontiere del progresso tecnico, la capacità di aumentare i
volumi della mobilitazione dei capitali, la possibilità d’investire in R&S, la possibilità di
disporre di masse critiche di risorse manageriali: tutto ciò non può essere sostituito
dall’enfasi sulle virtù del “piccolo e bello”, anche se miniaturizzazione dei processi produttivi,
consentiti dalle nuove tecnologie flessibili e il livello raggiunto dal sistema di comunicazione,
database di marketing sofisticati, facilità della vendita on-line, consente sperimentazioni
impensabili anche solo tre lustri fa perché queste sono armi competitive formidabili, che
permettono oggi anche ad un’impresa minore di costruirsi posizioni di nichia interessanti nei
mercati globali, follia dei dazi permettendo.

Tommaso Basileo

®TommasoBasileo - 2024

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