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L’America è finita? Le radici esterne/interne dell’americanofobia

Nell'attuale presunto tramonto della civiltà americana e occidentale, la furia esterna/interna della distruzione del nostro passato è accecante.

E’ inevitabile un confronto con l’Impero romano per sottolineare una differenza essenziale
in questo presunto tramonto della civiltà americana. Quando cominciò quella rivoluzione
dall’alto che avrebbe imposto al popolo un’”inversione valoriale” - l’abbandono di tutte le regole
del mondo pagano sostituite da controregole cristiane -, l’imperatore Costantino ebbe cura di non
demolire la memoria di Roma. Il passato dell’impero, le sue realizzazioni e le sue conquiste,
erano beni preziosi e non andavano diffamati. L’imperatore convertito al cristianesimo non
trasformò in criminali o demoni i suoi predecessori, anzi, si erse a continuatore di una storia
nobile e illustre. Anche per questo l’impero durò altri 140anni prima di esalare il respiro finale.
Nell’attuale presunto tramonto di civiltà, invece, “linversione valoriale” non salva proprio
nulla, la furia esterna/interna della distruzione del passato americano è accecante. Non
investe solo l’America ma tutto l’Occidente: fabbrica di genocidi, mostruosa fucina di ingiustizie
e di sofferenze, ha soggiogato, sfruttato e violentato l’umanità intera, oltre ad aver dilapidato le
risorse naturali del pianeta.
La fine dell’America la sentiamo annunciare, insieme al crollo del capitalismo, da almeno
Cinquant’anni, come se un’egemonia militare, economica, finanziaria, tecnologica e culturale si
possa dissolvere nello spazio di un talk show o in una tornata elettorale.
Certo, “stavolta c’è la Cina che potrebbe sostituirla”. La coincidenza fra le molteplici
debolezze americane e l’ascesa di un colosso con 1,4 miliardi di abitanti e tremilacinquecento
anni di storia crea, effettivamente, una situazione nuova. Nel lungo termine non è insensato
pensare che il baricentro della storia tornerà a spostarsi in Asia. In parte ciò è angosciante,
finché a Pechino siede un regime autoritario.
Una verità scomoda e imbarazzante riguarda gli europei. Noi europei abbiamo il Dna
dell’antiamericanismo. Ex potenze coloniali – Inghilterra, Germania, Francia e persino l’Italia,
che buon’ultima volle il suo piccolo impero africano – hanno subito con livore il proprio
declassamento. Per generazioni abbiamo invidiato gli americani e abbiamo mascherato questo
risentimento considerandoli presuntuosi e ignoranti, malgrado le loro classi dirigenti abbiano
cooptato i nostri migliori talenti emigrati. Le più grandi famiglie politiche del continente, cioè
gli ex fascisti, gli ex comunisti e i cattolici, hanno sempre odiato l’America.
Gli europei hanno anche subito con irritazione lo spettacolo della propria incoerenza: pacifisti
solo grazie alla protezione militare americana, hanno sempre dato lezioni etiche agli Stati Uniti,
salvo scoprirsi impotenti e codardi di fronte alla rinascita degli imperialismi russo e cinese. Per
questo gli stessi europei che ripetono il ritornello abituale sul tracollo americano non capiscono la
vera natura della crisi attuale. Non capiscono che siamo tutti coinvolti.
Le derive estremiste negli USA hanno deformato ambedue gli schieramenti che si
fronteggiano: la destra moderata è quasi invisibile, la sinistra ragionevole è intimidita dai
radicali. La certezza con cui si attribuiscono tutte le colpe alla parte politica avversa è uno dei
sintomi di una comunità malata. Per una crudele ironia della sorte, proprio quegli europei che più
disprezzano l’America oggi ne stanno importando i peggiori difetti in casa propria: dalla censura
politically correct nelle università inglesi all’odio per l’Occidente di Carola Rackete,
all’ambientalismo pauperistico di Greta Thunberg.
Ma l’America è oggi il laboratorio che distingue questa crisi da tutti gli episodi precedenti.
Oggi, quei pezzi di cultura radicale che demonizzano e demoliscono ogni valore
dell’Occidente sono cooptati nell’establishment. Mai in passato c’era stato un allineamento così
totale fra la cultura antioccidentale e i poteri forti del capitalismo, della cultura, dei media,
dell’industria dell’entertainment. La colpevolizzazione dei bianchi, l’esaltazione di tutte le
minoranze etniche o sessuali, il neopuritanesimo, l’ambientalismo apocalittico, tutti questi

movimenti sono sostenuti dai miliardari progressisti e dalle caste privilegiate del capitalismo
digitale. Nelle crisi precedenti del modello americano, le forze che tentavano l’assalto erano
antisistema; oggi è il Sistema ad aver deciso di perpetuare il proprio potere abbracciando le
ideologie antioccidentali ma, così facendo, si sabota ogni difesa immunitaria si distruggono gli
anticorpi.
Qual è il tornaconto dell’establishment in questa operazione? Cosa ci guadagna ad
abbracciare con fervore la woke culture? La politica identitaria consente di ignorare le vere
diseguaglianze di massa.
La demolizione dei valori tradizionali si addice a quell’élite che ama definirsi meritocratica ma
solo per nascondere i difetti della società che ha costruito: dietro l’idolatria del talento c’è
quella delle “credenziali”, c’è l’egemonia dei tecnici e degli esperti, caste autoreferenziali che
non hanno conti da rendere, non devono mai rispondere dei disastri compiuti. La selezione in
base alle “credenziali”, però, non ha nulla a che vedere con il talento o con il merito: è quella
dei network, delle cordate, dei clan, delle solidarietà mafiose. Tutta la storia della globalizzazione
iniqua, delle crisi finanziarie, fino alla stessa gestione della pandemia, è una collezione di errori di
cui nessuno ha mai fatto ammenda.
Questo sistema si perpetua facendo finta di rinnovarsi, coopta i vip delle minoranze “giuste”
pur di ricacciare indietro la massa degli impoveriti. Intanto, la distanza delle percezioni
rispetto la realtà si allarga. Un recente sondaggio Gallup rivela che l’americano medio sovrastima
la percentuale dei neri sulla popolazione nazionale: pensa che siano il 33 per cento mentre sono
solo il 12 per cento. Così come sovrastima in modo ancor più eclatante la percentuale della
popolazione Lgbtq pensando sia il 25 per cento del totale mentre è solo il 3,8 per cento.
Quando le civiltà ripiegano su se stesse, battono in ritirata, scelgono la rinuncia, allora la
decadenza è garantita. Questo include degrado morale, edonismo ed egoismo, nonché
l’incapacità di sacrificarsi per difendere la civiltà dai suoi nemici esterni.
Meglio, molto meglio registrare i sentimenti con cui ci guardano gli stranieri che fuggono dai
tanti paesi che vogliono sostituire il nostro mondo. Roya Hakakian è donna, iraniana, immigrata,
è una scrittrice di squisito talento poetico che ha saputo dire agli americani la verità su se stessi.
Cominciò dalle piccole cose: l’ebrezza di potersi togliere il velo. L’esperienza del corteggiamento
in un mondo dove le donne hanno conquistato tanti diritti, compreso quello di prendere
l’iniziativa. Respirò a pieni polmoni la libertà di cui noi occidentali non ci rendiamo più conto.
Ma, alla fine, non tutto le piacque. E lo disse con sincerità e fermezza. Non le piacque il disprezzo
delle élite verso la classe operaia. Verso quelli nati in America che non hanno una storia da
raccontare se non quella di un fallimento, di un tradimento, di una disperazione.

®TommasoBasileo - 2024

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