L'ossessione di Achab
Moby Dick di Melville non è solo un grande romanzo di avventure, una sorta di poema epico, è un libro che contiene una dozzina di libri.
“Chiamatemi Ismaele”. Con questo incipit di una originalità sconcertante Hermann
Melville ci introduce per mano al suo monumentale Moby Dick. Un capolavoro non riducibile
alla sfrenata e ossessiva caccia alla balena bianca e alla sua drammatica conclusione.
Tutto ha inizio quando Ismaele, nella città insulare dei manhattanesi, incontra il
tatuatissimo selvaggio Quiqueg, nativo di un’isola che non è segnata in nessuna carta
geografica, che si rade con la lama del rampone da baleniere e si porta sempre dietro, pronta, la
sua bara. La “locanda dello sfiatatoio” taverna dei balenieri, con la sua atmosfera mitologica, ci
trasporta in un clima tra il caotico e il surreale dove il proprietario urla alla figlia: “Và dal pittore
e digli di dipingermi un’insegna così: Non è permesso uccidersi né fumare in sala”.
Dopo il traumatico incontro di Ismaele con Quiqueg i due diventarono amici per la pelle.
Alla predica domenicale, naturalmente sul libro di Giona, fatta da un sacerdote-marinaio che si
inerpica sul pulpito con una scaletta di corda, in una chiesa fatta con pezzi di nave e di balena, i
due amici furono testimoni dell’arrivo dei grotteschi proprietari del Pequod e dell’amputato
Achab.
Nella parte descritta della crociera, prevalgono colori epici, preludio alla caccia della
balena bianca, la folle avventura che, come per una sorta di malìa, coinvolge dal primo all’ultimo
i membri di una ciurma di sanguemisti, reietti e cannibali.
Seguono la descrizione della crociera del Pequod, i tempi morti della traversata atlantica, la
minacciosa apparizione di un calamaro gigante, il periodico incontro con le altre navi baleniere, le
prime notizie sull’avvicinarsi di Moby Dick.
Nella caccia alla prima balena vi è una lunga orazione del secondo ufficiale, Stubb, ai
marinai della sua lancia, che pare uscita da Salgari: “Forza, bambini, forza piccini! Forza non
pensate allo zolfo, i demoni son gente simpatica [...]. Ma perché non spaccate i remi, farabutti?
Che il diavolo vi strangoli, mascalzoni pezzenti!”. Quando la caccia finale si avvicina, prevale il
flusso di coscienza interiore di Achab, quasi una riflessione sulla trascendenza, e un dialogo col
mostro bianco. Fino al fluviale addio alla vita che fa Achab, parlando di sé in terza persona, come
fosse già esterno alla sua essenza mortale, consapevole che sarà la balena a vincere, in un dialogo
col primo ufficiale Starbuck, ripercorrendo la vita che ha vissuto: quarant’anni di isolamento, di
comando solitario, di carne secca, e la stanchezza improvvisa che lo coglie pensando a moglie e
figlia, che vede già vedove e orfane.
Moby Dick non è solo un grande romanzo di avventura una sorta di venerabile
poema epico, è qualcosa di più, è un libro che ne contiene una dozzina. E’ insieme una
raccolta di note etimologiche sul termine balena, un citazionario sui cetacei, una ricerca
antropologica sulla vita dei balenieri, un ampio resoconto sui costumi dei puritani della Nuova
Inghilterra, un testo scientifico di zoologia dei cetacei, un manuale di caccia alla balena, una
raccolta di informazioni sulle parti commestibili dei capodogli e sul modo di cucinarle, una
riflessione sul valore simbolico del leviatano, un’estesa casistica dei racconti avventurosi che si
scambiano gli uomini di mare, un’indagine filosofica sul rapporto tra il caso, la necessità e il
libero arbitrio, una sorta di sacra rappresentazione del modo in cui la natura esprime la collera
divina e, infine, un testo di psichiatria sulla patologia ossessiva di Achab.
Il processo narrativo di Melville è una sorta di accumulo progressivo di elementi che
servono a prepararci al dramma finale. Anche il modello di scrittura muta in continuazione,
dall’io narrante, alla seconda e terza persona, fino alle parti di ricognizione scientifica, dove si
abbandona il tono letterario per entrare nel canone della divulgazione.
Nell’insieme il romanzo, la sua potenza letteraria, non hanno bisogno di complesse analisi
delle simbologie oltre il biancore della balena. La vita a bordo di una nave è già un microcosmo
che rispecchia, in piccolo, tutte le interazioni umane. L’olocausto che Achab impone
all’equipaggio è un lavacro collettivo dalle colpe dell’umanità penitente. Ma è insieme, la
condanna a navigare e a cacciare, che rappresenta limpidamente la lotta per la vita e la dantesca
aspirazione alla conoscenza dell’uomo. E la fatale conclusione della caccia non fa che metterci
davanti al mistero della morte.
La struttura del romanzo segue il lento avvicinarsi del compimento del dramma, ma a un
certo punto perde il suo passo biblico e il racconto subisce una brusca accelerazione e quasi
precipita verso la conclusione. Achab, roso dalla follia. È accompagnato da una specie di coro
greco in un crescendo di tensione e di pathos, fino all’affondamento della nave che ricalca in
prosa la conclusione del canto dantesco di Ulisse. Dopo lo sconquasso che Moby Dick ha fatto tra
le lance che lo inseguivano. La balena bianca, dopo essersi inabissata, riemerge con il corpo di un
marinaio legato dalle lenze sul dorso, mentre Achab viene strappato da un cavo che gli si impiglia
al collo, e in una specie di danza macraba, micidiale, la balena disintegra il bastimento.
Alla fine, Ismaele torna voce narrante: “Il dramma è finito. Perché allora qualcuno si
fa avanti? Perché uno è sopravvissuto alla distruzione”. Ismaele, issato sulla bara di Quiqueg,
unico oggetto galleggiante scampato alla balena infuriata, al gran demonio vagante, dopo due
giorni di galleggiamento su un mare “morbido e funereo”, è pietosamente raccolto da una nave
che lo riporta a noi perché sia testimone della discesa agli inferi di Achab e del Pequod.
Tommaso Basileo