La mobilità abitativa e il nodo dei senzatetto in USA e UE
Il rapporto con la casa, come è noto, è molto diverso in America e in Europa: dinamiche con dimensioni, velocità e orientamento molto distanti.
Come è ampiamente risaputo la mobilità abitativa in UE e in Italia, anche dopo l’adozione dei
liberi contratti di locazione residenziale, rappresenta una palla al piede per gli spostamenti tra città
e Stati ai fini della ricerca di attività lavorative o di studio alternative.
Gli immobili residenziali costano parecchio di più negli USA che in Europa e Italia sia per
l’acquisto che per la locazione. Solo le case singole realizzate in legno, molto comuni negli USA,
hanno un costo di produzione e tempi di costruzione nettamente inferiore dei nostri. In Italia poi,
tranne che per la prima casa, le spese standard di imposte e tasse (IMU, TASI,TARI) e di
trasferimento della proprietà sono particolarmente elevate. Prossimamente, saremo edotti dei
costi di ristrutturazione che dovremo sorbirci (o la perdita di valore e disponibilità) per
adeguare la categoria energetica delle abitazioni ai parametri che definirà la Direttiva UE e, in
seguito, le norme nazionali recepite da questa.
Gli americani, in particolare, hanno un rapporto con la casa molto diverso e dinamico dal
nostro. I dati degli ultimi censimenti mostrano che un quarto di loro ha traslocato negli ultimi
cinque anni e che uno statunitense cambia casa in media dodici volte nell’arco della propria vita.
Negli USA le abitazioni si vendono e si comprano, si affittano e si riaffittano più di quanto
accada in Europa, e si cambiano in fretta non appena diventa possibile andare alla ricerca di una
soluzione migliore, o quando diventano troppo piccole, troppo grandi o troppo costose.
Certo, in un paese costruito interamente sull’immigrazione e sul mito della frontiera non
esistono statunitensi che non siano arrivati da qualche altra parte: loro o i loro antenati.
Lasciare la propria città o il proprio Stato per studiare o per lavorare altrove è considerato
perfettamente normale, niente di traumatico di cui lagnarsi: non esiste alcuna narrazione né
discussione pubblica sulla “fuga dei cervelli” dalle zone rurali verso le grandi città, o dagli Stati
che offrono meno opportunità a quelli più sviluppati.
D’altra parte, nessuno sceglie dove nascere, e non c’è niente di meno americano dell’idea di
affidare al caso quello che è forse il singolo fattore più importante nel determinare il proprio
percorso di vita: dove vivere. Questa cultura, unita a un certo disinteresse per l’opprimente
sacralità del passato, della famiglia e della tradizione, genera innovazione e mobilità sociale, e
soprattutto contribuisce ad accelerare il ritmo con cui avvengono cambiamenti socioeconomici
che altrove richiedono secoli o semplicemente non avvengono, si pensi per esempio al nostro
immutabile divario tra Nord e Sud. Invece, gli Stati dell’America settentrionale che negli anni
Sessanta e Settanta trainavano l’economia del paese oggi sono in grossa difficoltà, mentre quelli
del Sud stanno emergendo con veemenza dall’arretratezza di un tessuto fondato quasi soltanto
sull’agricoltura e sull’allevamento del bestiame.
C’è un’altra faccia della medaglia, però. Questa società liquida, questa cultura del
movimento, della volatilità e dell’adattamento alza moltissimo il peso della sanzione per chi
non ce la fa, per chi inciampa, per chi si trova in difficoltà. Le reti sociali e familiari sono più
deboli delle nostre, e la geografia di un paese gigantesco e poco densamente popolato non
migliora le cose. Gli strumenti del loro welfare residuale sono imparagonabili ai nostri
universalistici – sussidi, cassa integrazione, malattia, infortuni eccetera – e le leggi tutelano la
proprietà privata più di quanto proteggano le persone fragili della società. L’inevitabile risultato è
che se dalle nostre parti siamo abituati a pensare che vivere per strada sia la tappa finale di una
lunga discesa verso il basso fatta di sfortune, umiliazioni e fallimenti, negli Stati Uniti è tutto
estremamente più semplice. Perdere la casa non è l’ultimo passo di una caduta agli inferi:
spesso è il primo. Ne risulta una popolazione di persone senzatetto complessivamente
lontana dagli stereotipi e dalle caratteristiche che questo fenomeno assume in Europa.
Negli Stati Uniti incontriamo spesso iniziative e soluzioni originali inconcepibili nella vecchia
Europa. Si pensi all’Università pubblica californiana Long Beach City College che ha deciso nei
primi mesi del 2022 di destinare un parcheggio chiuso e protetto ai suoi studenti senzatetto, per
permettere loro di dormire in auto in un posto sicuro e avere accesso a bagni puliti, energia
elettrica e un wifi.
Qualche anno fa un team di economisti riscontrò che quando in una città l’abitante medio
comincia a spendere per la casa più di un terzo del proprio reddito, il numero degli homeless
inizia ad aumentare, addirittura a prescindere se si lavora o si è sottoccupati. In Europa come
nello Stato di New York si costruiscono una fitta rete di assistenze e ricoveri notturni
appoggiandosi anche al lavoro di organizzazioni non profit. In molti stati americani hanno,
invece, adottato una politica molto diversa: tollerare la presenza delle persone senzatetto sui
marciapiedi, ma spingerne progressivamente la gran parte in alcune specifiche zone, nel vano
tentativo di allontanare la miseria delle loro vite dagli occhi dei residenti.
Ogni giorno e ogni notte per strada avviene una tragica quantità di umiliazioni, violenze,
abusi, angherie grandi e piccole. Basta uno solo di questi episodi per generare traumi indelebili,
con conseguenze pesantissime, anche su una persona che conduce un’esistenza sicura, tranquilla,
normale.
Da un paio di decenni, in diversi stati, a partire dalla California viene utilizzata una nuova
strategia per gestire e risolvere il problema dei senzatetto si chiama “Housing First”. La
strategia Housing First prevede che le persone senzatetto vengano sistemate direttamente dalla
strada in appartamenti da gestire in autonomia, concessi gratuitamente e soprattutto senza vincoli
condizionali: quindi a prescindere dal fatto che accettino di sottoporsi a cure e terapie antidroga, e
dai loro eventuali risultati. L’idea è che soltanto interrompendo subito la routine tossica della vita
per strada sia possibile ipotizzare un percorso di guarigione, e che la restituzione della dignità agli
esseri umani si è mostrata fin qui più efficiente degli approcci precedenti subordinati al
raggiungimento di questo o quel risultato. Questa strategia è ancora oggetto di studi e dibattiti
fra gli addetti ai lavori, ha raggiunto diversi risultati, ha funzionato e potrebbe funzionare
su vasta scala. Tuttavia, è difficile dire che abbia risolto il problema. Nonostante anni di
lavoro, grossi investimenti nell’acquisizione, nella ristrutturazione e nella costruzione di
appartamenti da destinare alle persone senzatetto, le dimensioni della crisi umanitaria non si sono
ridotte significativamente.
L’idea che la causa originaria di questo fenomeno sia la diversa durezza del capitalismo
americano rispetto quello europeo, ha sicuramente qualche fondamento: MA quando le
organizzazioni a difesa dei senzatetto decidono che combattere il sistema abbia la priorità rispetto
ad aiutare le persone, succede che il concretissimo obiettivo iniziale ceda il passo ad altri ben più
ambiziosi e astratti e si resti incastrati in un vicolo cieco e non si arrivi da nessuna parte.
L’inconcludenza di ogni conversione antagonistica su questa lotta umanitaria l’accertò il
giornalista del “San Francisco Chronicle” Kevin Fagan con la sua leggendaria inchiesta “Shame
of the City”. Trascorse quattro mesi nel 2003, vivendo per strada insieme ad un fotoreporter e
agli homeless della città, tornando a casa una volta alla settimana soltanto per lavarsi e
tranquillizzare la moglie.
Tommaso Basileo