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Migrazioni e Melting-pot

Soltanto prendendo le mosse dai problemi che le migrazioni pongono si può sperare di dare una risposta realistica ed equilibrata a questa enorme sfida epocale.

La diagnosi di Hannah Arendt, secondo la quale il simbolo della fine del XX° secolo
sarebbero stati i senza patria, i diseredati e i profughi, ha trovato conferme spaventose.
I vecchi campi di accoglienza che servirono nell’Europa distrutta dalla seconda guerra
mondiale per i rifugiati e immigrati, non riescono più a contenere il flusso delle nuove ondate
migratorie. Un problema gigantesco che può essere affrontato solo da una “chiara e realistica”
politica comune degli Stati europei. Altrimenti, questi movimenti migratori massicci, improvvisi e
incontrollati da Est e dal Sud finiranno per funzionare, se non troveranno efficaci e realistiche
risposte, alla stregua di pesanti sanzioni, nella misura in cui costringeranno l’Unione Europea a
fronteggiare le responsabilità rovesciatele addosso sia dalla bancarotta del socialismo dispotico
di stato che dal fallimento del modello di sviluppo post-coloniale.
La presenza degli stranieri è diventata parte della normalità di quasi tutte le città e le
regioni europee, eppure viene ancora percepita come una sorta di anomalia. Questo
sentimento sembra essersi anzi accentuato negli ultimi anni, da quando il vento gelido del Nuovo
Disordine Mondiale ha preso a soffiare più forte; da quando le prime guerre civili europee dopo
ottant’anni di pace, hanno messo in moto nuove fughe di massa attraverso il continente, e da
quando l’afflusso dalle regioni di crisi e di disordine del Terzo mondo è diventato “visibile” nelle
strade e nei borghi delle nostre città opulente.
Non deve suscitare molta meraviglia il fatto che gli uomini e le donne europei, che appena
trent’anni fa consideravano il loro mondo assolutamente stabile, abbiano oggi un timore più
complesso dei timori che circolano riguardo il posto di lavoro. Sono spaventati per l’ordine
pubblico e dalla perdita di identità che deriverebbe dall’accettazione del multiculturalismo e
dall’abbandono dell’idea e della pratica di una lingua dominante. L’incubo è quello della
“sostituzione etnica”, di essere invasi dai barbari fin nell’interno della Cittadella fortificata.
Queste paure sono, peraltro, alimentate ad arte dall’Internazionale sovranista che
sull’immigrazione si nutre della speculazione politica che emerge dalla polarizzazione sul tema,
senza possedere alcuna soluzione credibile.
Del resto, il Melting pot non è ancora stato digerito e metabolizzato neanche nel
Nuovo Mondo dove il pluralismo ebbe origine con l’immigrazione di individui e di famiglie,
arrivati l’uno dopo l’altro nelle grandi città portuali (tranne che per i neri africani prelevati
dai luoghi d’origine e schiavizzati) in fuga dall’intolleranza religiosa e dall’oppressione di
una società gerarchizzata, senza libertà.
Il dislivello di natalità e la pressione demografica, l’ampio squilibrio economico,
fortemente attenuato da trent’anni di globalizzazione, la rivoluzione dei mezzi di comunicazione e
l’unificazione del villaggio globale sono fattori sufficienti, quindi, a spiegare l’entità delle nuove
grandi migrazioni. Va invece sottolineata la novità qualitativa dei movimenti stessi che a
differenza dei flussi migratori che hanno accompagnato il processo di industrializzazione,
configurano forme di occupazione intensiva e non più estensiva dei paesi d’accoglienza, forme di
colonizzazione interstiziale destinate a incontrare assai presto limiti invalicabili che, fra l’altro,
entrano in conflitto con l’orientamento allo sviluppo tecnologico e di automazione dei
processi produttivi.
La storia mostra che le migrazioni hanno anche portato dinamismo e innovazioni.
Rendere vivibile Babilonia è uno degli scopi della politica del futuro. C’è una ricchezza nella
diversità che non sia confliggente con principi, usi e norme della realtà accogliente e questa
risorsa va valorizzata. Ma quali sono le modalità e i limiti di tale valorizzazione? Quali sono le
condizioni economiche, sociali, istituzionali, culturali che devono sussistere perché la sfida si
riveli produttiva? Soltando prendendo le mosse dai problemi che le migrazioni pongono si

può sperare di dare una risposta alla sfida senza oscillare tra cinismo e retorica, tra
indifferenza e commozione.
Se non vogliamo essere né superficiali né, tantomeno, ipocriti dobbiamo dire che le
ricerche empiriche mostrano come l’emigrazione non riesce ad alleviare in modo sostanziale la
pressione demografica consentendo un riequilibrio del mercato locale, mentre certamente
impoverisce i paesi d’origine degli elementi più giovani, scolarizzati e potenzialmente innovativi,
operando quindi una sorta di selezione negativa.
Va aggiunto che il dovere solidaristico di ospitalità entra inevitabilmente in conflitto
con il diritto dei cittadini già insediati a difendere la specificità della propria cultura politica
e istituzionale, e questo vale soprattutto verso l’immigrazione islamica. Altrettanto
problematica è la nozione di un obbligo morale, derivante dalla consapevolezza
dell’interdipendenza globale e dalla storia della colonizzazione, delle socità ricche di
accogliere senza discriminazioni immigranti che chiedono asilo economico. Quell’obbligo non è
tale da fondare “un diritto individuale all’immigrazione giuridicamente esigibile”, ma è
condizionato dalla “capacità d’accoglimento” delle società democratiche aperte.
L’argomento che le attuali migrazioni dal Sud verso il Nord sono state precedute
storicamente da un imponente esodo “proletario” dall’Europa verso gli altri continenti
possiede una sua validità per la fondazione di un obbligo d’accoglienza, ma presenta anche
evidenti limiti su un piano pragmatico. Si è calcolato che tra il 1800 e il 1960 circa 61 milioni di
europei siano emigrati in altri continenti, soprattutto verso il Nordamerica, in larga misura
spopolati e anteriormente alla rivoluzione industriale, all’inurbamento e alla scolarizzazione. La
situazione è oggi profondamente mutata, visto che gruppi sociali caratterizzati da alti tassi di
natalità e bassa qualificazione professionale stanno muovendosi verso le aree più sviluppate del
pianeta, ad alta densità demografica e con mercato del lavoro orientato alla ricerca di profili
altamente specializzati, anche se ancora recettivo nelle fasce più basse e soprattutto nei servizi
pesanti e alla persona, nell’economia sommersa o informale.
Hanno indubbiamente ragione coloro che sostengono che la presenza degli stranieri
extracomunitari in Europa (30 milioni ca. di individui) non è, da un punto di vista economico, un
peso da sopportare. Se venisse a mancare, d’un tratto, questa presenza nelle piccole e medie
industrie, nell’agricoltura, in tantissimi servizi, si determinerebbe un collasso drammatico nei
nostri sistemi produttivi nonché nei sistemi previdenziali. L’equilibrio dei sistemi previdenziali,
tuttavia, più che dall’apporto dei migranti, sarà in futuro supportato dall’IA che potenzierà
la contribuzione non basata solo sull’anzianità di servizio ma, anche sul valore aggiunto che
l’IA stessa continuerà a generare dopo la quiescenza del lavoratore.
Tommaso Basile

®TommasoBasileo - 2024

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