Quando Matteo Ricci avvicinò la Cina e l’Europa
Quello del gesuita fu un obiettivo molto ambizioso: spiegare l'Occidente cristiano ai cinesi e decifrare per noi la Cina buddhista e confuciana.
Quando il padre gesuita Matteo Ricci si lanciò nelle sue avventure asiatiche, le trucide
guerre di religione tra cattolici e protestanti insanguinavano l’Europa. L’Italia era un
campo di battaglia attraversata da milizie mercenarie straniere. Il nemico per eccellenza che
occupava la Terra Santa attentava alla sicurezza stessa dell’Europa cristiana spingendosi
fino alle porte di Vienna. L’avanzata ottomana fu fortunosamente bloccata dalla Lega Santa tra
la Spagna, Venezia e il papato a Lepanto.
Era viva, in quell’epoca, un’idea germinata fra noi nel tardo Medioevo delle crociate: se si
fosse riusciti ad aggirare la vasta terra nemica (il Medio Oriente) controllata dall’Islam, più
oltre si potevano trovare dei potenti alleati per la cristianità, da arruolare in una coalizione
comune.
La prima tappa dell’avventura asiatica di Ricci nel 1578 lo portò a Goa in India, poi a Cochin nel
Kerala. Nel 1582 si trasferì a Malacca e a Macao, sempre seguendo gli avamposti del nascente
imperialismo portoghese. L’anno dopo fece il suo sbarco nella Cina continentale; prima a
Zhaoqing nella regione di Canton, poi a Shaozhu, Nanchino, Nanchang. Il gesuita non lascerà più
la Cina che diventerà la sua seconda patria per quasi trent’anni. Morì a Pechino nel 1610.
Padre Ricci era un intellettuale polivalente, formidabile mente matematica, dotato di eccezionale
curiosità e capacità di apprendimento, fu attratto a tal punto dalla civiltà cinese da adattare il
proprio messaggio cristiano, ai limiti dell’eresia. Il gesuita si impose da subito un ambizioso
obiettivo: spiegare l’Occidente cristiano ai cinesi e decifrare per noi la Cina buddhista e
confuciana. Un’operazione grandiosa, immensa, che gli riuscì solo in parte e lo condannò ad
essere spesso incompreso sia dagli uni che dagli altri.
Senza venir meno al mandato originario – evangelizzare i cinesi – capì che il rispetto
confuciano per la conoscenza era la chiave per far breccia nella classe dirigente locale. Più
che a convertire il popolo egli puntò soprattutto al proselitismo fra i mandarini, le élite, i
sovrani. Quella di padre Ricci diventò presto una sorta di competizione scientifica, per
impressionare i dirigenti cinesi con un’esibizione delle migliori conoscenze occidentali. Gli
daranno man forte più tardi altri due gesuiti-scienziati giunti in Cina, i padri Rho e Schall.
La cosa straordinaria e in parte paradossale fu che i gesuiti in Cina utilizzarono e diffusero
le più avanzate teorie astronomiche che la Santa inquisizione aveva condannato e
perseguitato come eretiche: idee di Copernico e, più avanti, quelle di Galileo e Keplero.
Usando la scienza più moderna dell’epoca, i gesuiti corressero alcune imperfezioni del calendario
lunare cinese, con grande vantaggio per l’organizzazione dei raccolti agricoli che lo applicavano.
Tra le doti di padre Ricci c’era una memoria prodigiosa, allenata sistematicamente attraverso
dei metodi che si tramandavano dalla Grecia antica. Il “Palazzo della memoria” di Ricci era una
tecnica che consisteva nel memorizzare le cose (cifre, vocaboli e segni di una lingua straniera,
concetti, persone o eventi storici) associandole a stanze di un immaginario palazzo, con ripostigli,
armadi, tutti custoditi mentalmente. Ricci offrì astutamente questo metodo ai cinesi come la
strategia vincente per passare i concorsi di ammissione all’alta burocrazia imperiale. Concorsi
costituiti da esami difficilissimi e iperselettivi che imponevano grossi sforzi mnemonici.
Lo sforzo di adattare il messaggio cristiano alla Cina gli suggerisce di evitare la messa in latino;
scese a compromessi con taoismo e buddhismo per tradurre in mandarino il nostro concetto di
Dio. Via via, però, che s’immerse nello studio di Confucio, il gesuita capì che il più grande
pensatore della storia cinese era sostanzialmente agnostico. Nell’insegnamento di Confucio
non c’era posto per Dio né per l’immortalità dell’anima. Anche il buddhismo delle origini
era ateo.
Ricci si conquistò il rispetto dei mandarini cinesi più illuminati: nella sua mentalità scientifica e
razionale essi videro un’alternativa alla superstizione delle masse. In quanto al ruolo d’interprete-
divulgatore delle credenze cinesi in Europa, il gesuita fece un’operazione simile a quella che San
Tommaso d’Aquino aveva fatto con Aristotele.
La questione dei “riti cinesi”, venne strumentalizzata negli scontri politico-religiosi in Europa.
Papi, re, ordini religiosi diversi si scontrarono sulla Cina, in realtà per regolare altri conflitti di
potere
Non giovò a Ricci il fatto che lui poté esibire un numero limitato di conversioni; e la
crescente ostilità verso il cristianesimo da parte di una Cina che cominciò a intravvedere le
ambizioni espansionistiche degli europei.
Due secoli dopo l’avventura di Ricci in terra cinese la sua eredità venne celebrata da uno dei più
importanti intellettuali francesi che ispirarono la rivoluzione del 1789 e la Dichiarazione dei diritti
dell’uomo. Montesquieu, nel capitolo dedicato all’impero cinese nel suo famoso “Lo spirito delle
leggi” coniò quel concetto semplicistico che ebbe una enorme fortuna e influenza, in seguito, sul
modo di vedere la Cina da parte di noi occidentali: “Per la sua immensità, e per la sua densità
abitativa, la Cina non può che essere governata attraverso l’obbedienza servile a un governo
dispotico. E tuttavia, si tratta del miglior dispotismo al mondo”.
La formula del “dispotismo orientale” diventò una delle chiavi di lettura standard utilizzate da
molti autori, in Occidente, persino da Marx. Mi auguro vivamente che questa chiave di lettura
della realtà cinese sia un anacronismo che quel grande popolo e quella grande civiltà sapranno
prima o poi superare.