Riuscirà Trump a disintegrare la globalizzazione?
Con la sua politica dei dazi Trump sta terremotando il mercato aperto, la Globalizzazione e l'unica teoria economica non falsificata: "I vantaggi comparati
La globalizzazione, come ogni esperienza umana ha i suoi sostenitori e i suoi
detrattori. In una prima fase, la sua bandiera, fu impugnata con tale entusiasmo da trasformarsi
in una ideologia producendo una sorta di fanatismo visionario e messianico. Come c’era da
aspettarsi questa euforia ha prodotto altrettanto fanatismo anti-globalizzazione in giro per il
mondo.
Ogni uomo dotato di buon senso è favorevole al commercio tra le nazioni. L’autarchia
e il protezionismo sovranista ad oltranza generano miseria. Nessuno può coltivare l’ideale di
barricarsi all’interno delle proprie frontiere e nessuno auspica il ritorno delle vecchie guerre
commerciali tra le nazioni. Il commercio internazionale è indispensabile, ma ha bisogno di
regole, convenzioni e negoziati tra i suoi attori, non “trattative” mafiose, armi in pugno.
Dalla fine del secondo conflitto mondiale, lo sviluppo e la crescita, naturalmente scanditi
dai cicli economici, sono stati praticamente ininterrotti. A determinarne l’andamento hanno
concorso due fattori: la capacità tecnologica di accrescere l’offerta di beni e servizi e la capacità
socio-politica di ampliare la domanda di questi beni e servizi. Il consumo è sempre cresciuto di
pari passo con la produzione e si ebbe costantemente un buo ritorno del saggio di profitto delle
aziende. Il dinamismo della domanda fu il risultato di un nuovo consenso sociale sulla
ripartizione dei frutti della crescita, almeno nei paesi democratici più sviluppati. Tutti –
operai, impiegati, dirigenti, contadini e pensionati – beneficiarono di aumenti regolari dei redditi.
L’effeto macroeconomico di questo nuovo consenso fu l’aspettativa, implicita e permanente,
dell’aumento della produzione. Le società fortemente integrate del dopoguerra erano capaci di
assorbire, tramite il consumo, tutti i guadagni di produttività dei fattori e del lavoro, assicurando
quasi ovunque la piena occupazione. Il patto sociale (keynesiano-socialdemocratico) regolava
l’antico problema degli sbocchi, perfino troppo bene... Giacché, verso la fine degli anni
sessanta, una conflittualità sociale virulenta scatenata dai Sindacati, teorizzatori del “salario
come variabile indipendente”, determinò aumenti dei redditi che superavano troppo il
potenziale di crescita della produzione e lo sfasamento comportò una tendenza strutturale
all’inflazione accompagnata da stagnazione e un cattivo ritorno del saggio di profitto, che
durò circa un decennio.
Nell’attuale processo globale di integrazione delle economie e del mercato, solo in
parte sottoposto a rimodulazione da almeno cinque anni, i nuovi prodotti sono strutture
composite internazionali (questo è il primo aspetto che Trump non riesce a capire). Gli
scambi tra le varie nazioni sono sempre meno frequentemente costituiti da prodotti finiti e sempre
più spesso, sempre più massicciamente, da “componenti” (fabbricazione) e servizi generici, da
conoscenze specializzate per la soluzione di problemi (ricerca, progettazione, assemblaggio), per
l’individuazione di problemi (marketing, pubblicità) e per i servizi di intermediazione finanziaria,
che si combinano in un tutto unico a determinare il “valore” di scambio.
La maggior parte degli scambi non avviene più, quindi, con transazioni a distanza tra
acquirenti di una nazione e venditori in un’altra, ma tra società e individui all’interno di
una stessa rete globale. Cadute le barriere al flusso di uomini, conoscenze, capitali e beni
tangibili, in tutte le nazioni gruppi di individui e società si uniscono a questi reticoli
imprenditoriali globali. Entro pochi anni, se questo processo non stesse subendo drammatiche
interruzioni per effetto dell’irrazionale guerra commerciale trumpiana, e l’illegale aggressione
militare putiniana e varie destabilizzazioni terroristiche, questo processo era destinato a
determinare, con grandi difficoltà, la distinzione di una economia nazionale dall’altra e non solo
fra le economie fortemente integrate come quelle europee.
Trump con la sua folle politica dei dazi sta terremotando (forse senza neanche
rendersene conto) l’unica teoria/principio/pratica economica che non è mai stata falsificata
(nell’accezione di Popper): la teoria dei “Vantaggi comparati”. Che significa una cosa
semplice e chiara: i prodotti o i componenti di prodotti devono essere realizzati solo dove e da
chi è in grado, per molteplici ragioni, di fare un prodotto di qualità eccellente a un
costo/prezzo competitivo. Se ogni realtà si specializza nelle produzioni seguendo questo
principio, gli scambi si moltiplicano con vantaggi crescenti per tutti e un generale incremento
della produttività e dei redditi che andranno a sorreggere, in ultima analisi, la domanda globale e
lo sviluppo.
Pur prendendo le mosse da un problema serio e reale, cioè il deficit commerciale
americano che si accumula al ritmo impressionante del 5% annuo, Trump, con la sua
guerra dei dazi, rischia di aggravare il problema da cui ha preso le mosse e di far deragliare
l’economia del suo paese, e del mondo intero, verso inflazione e recessione.
Il suo scopo esplicito, dichiarato è una rilocalizzazione manufatturiera negli USA che, per
alcune componenti strategiche, come ad esempio i microchips (da Taiwan), è già in parte in atto
da almeno cinque anni, ma, in generale, è del tutto irrealistico questo suo piano in questo quadro
di incertezze normative, geo-politiche e di disponibilità di alcune materie prime rare, e di concrete
risorse tecniche e umane nei processi industriali americani.
Con l’UE Trump ha avviato, oltre che per i dazi, una trattativa trasversale sulle
criptovalute convertibili in $ (una sorta di garanzia come l’oro per Bretton Woods) che ha come
obiettivo di rafforzare la moneta USA e finanziare il Debito pubblico americano (otre che
arricchire la famiglia Trump) e che, in sostanza avrebbe, sotto traccia, la tronfia pretesa di
dollarizzare l’economia europea.
Una domanda sorge spontanea: perché, nonostante il caos dei dazi su e giù di Trump, la
Borsa di NY, dopo i primi sobbalzi che hanno consentito lo spudorato insider trading ai familiari e
amici stretti del Tycoon, ora si è stabilizzata al rialzo? Paul Krugman ha risposto, così: a) perché
la Borsa non è un previsore delle fasi del ciclo economico; b) perché i danni a breve periodo dei
dazi saranno certamente pesanti, ma nel lungo periodo, forse, potrebbero abbattere il Pil di
un’entità non drammatica.
A coloro che sperano di poter superare al più presto la politica tariffaria, Trump
(sfoggiando una gigantesca ignoranza nella storia dell’economia) ha risposto che, già dal
prossimo anno, i dazi saranno “too big to fail”, e rimuoverli causerebbe una devastazione simile a
quella del 1929.
BISOGNERA’ VEDERE se la forza bruta del Capitale, gli interessi sociali, la logica
stringente del Mercato e il “Deep State”, consentiranno a Trump di realizzare tutti i suoi disegni
malsani. Non è riuscito ancora, del resto, ad annullare la forza di gravità.
Tommaso Basile