Sarà possibile/necessario ridurre l’orario di lavoro?
Una proposta realistica e concreta di riduzione dell'orario di lavoro si dovrà pur studiare seriamente, attendendo l'uragano Intelligenza Artificiale.
Cosa si può chiedere alla tecnologia?
Le si può chiedere di accrescere l’efficenza e la produttività del lavoro e di ridurne la durata, la penosità. In altri termini, il prezzo della continua evoluzione tecnologica diventa accettabile solo nella misura in cui, continuando a creare valore, economizza il lavoro e il tempo. Questo è il suo scopo dichiarato. Non ne ha altri. E’ fatta perché gli uomini producano di più e meglio con meno sforzo e in minor tempo. Se l’economia del tempo di lavoro non fosse il suo scopo, la sua professione, nell’ambito produttivo, non avrebbe senso. Se crede in quel che fa, deve credere anche che gli individui non si realizzano soltanto nel lavoro. Se ama fare la sua professione, deve essere convinta che il lavoro non è tutto, e che ci sono cose altrettanto o più importanti. Cose per le quali le persone non hanno mai abbastanza tempo.
Il modello che prospetto esplicitamente è dunque quello di una economia che non cessa di inglobare nuovi campi di attività nella misura in cui viene liberato tempo di lavoro nei campi che occupava fino a quel momento. Ora, questa estensione del campo dell’economia conduce, conformemente alla razionalità che le è propria, a sempre nuova economia di tempo.
Lo si vede bene a proposito degli indirizzi più comunemente proposti per assicurare una nuova crescita: essi sono incentrati sulla digitalizzazione, robottizzazione e Intelligenza Artificiale, persino dei lavori domestici (teleshopping, casa domotica), ma anche dei servizi di ristoro, pulizia, cura della persona.
Questa tendenza sta provocando inevitabilmente una scissione della società in gruppi tecnico/professionali iperattivi e un ampio gruppo sociale (prevalentemente giovani e donne) escluso o, soprattutto, marginalizzato costretto a lavorare in modo instabile e sotto pagato per fare i “lavoretti” (dog sitter, volantinaggi, rider ecc.) al posto delle èlite, per non far perdere tempo a questi lavoratori super-oberati dei loro mestieri.
Questa stratificazione della società è diversa dalla stratificazione in classi. A differenza di quest’ultima, essa non riflette le leggi immanenti al funzionamento di un sistema economico.
Questa differenziazione, soprattutto per gli esclusi (disoccupati), è il risultato della massima selettività sociale quale prodotto della logica del mercato non mitigato da alcuna politica attiva del lavoro. Sta comportando nuove forme di differenziazione e di esclusione; ha reso più grave l’ineguaglianza. E’ come se la riduzione del tempo di lavoro fosse concentrata solo su un segmento della popolazione.
Una delle funzioni della politica, invece, dovrebbe essere proprio quella di ripartire le economie di tempo secondo principi non di pura razionalità economica ma di giustizia. Queste economie di tempo sono opera della società intera, sia pure con sforzi individuali differenti. Compito della politica è distribuirle a livello della società intera, in modo che ogni uomo e ogni donna possano beneficiarne.
SUL TEMA DELLA RIDUZIONE DELL’ORARIO DI LAVORO, tuttavia, le èlite degli Stati democratici evoluti, gli imprenditori e le organizazioni sindacali, restano sostanzialmente sordi.
Il massimo che abbiamo visto avanzare e che ha favorito interessanti riorganizzazioni del lavoro è stato il lavoro in smart working durante la pandemia Covid e, più recentemente, ha fatto il suo debutto la settimana corta su quattro o cinque giorni. Nessuna delle due opzioni prevede riduzioni dell’orario di lavoro. Comunque, pare che non rappresentino uno svantaggio né per le aziende, né per i lavoratori che non perdono salario e guadagnano in benessere (sensibile riduzione assenteismo).
Ma noi vogliamo insistere su una proposta realistica e concreta di riduzione dell’orario di lavoro facendo riferimento al martellante annuncio della drastica riduzione e moltiplicazione di mestieri da parte dell’uragano IA. Intendiamoci, una riduzione lineare del tempo di lavoro, col mantenimento di orari rigidi e uniformi, è la meno promettente e la meno efficace delle possibilità di liberare tempo.
E’ evidente l’impossibilità di introdurre nelle imprese, uniformemente e per tutto il personale, la settimana di 35, 30, o 25 ore su 5 o 4 giorni. E’ perfettamente possibile, al contrario, introdurre per tutti una durata annuale del lavoro di 1400, 1200 o 1000 ore (al posto delle 1600 attuali), ripartite a scelta, su 30, 40 o 48 settimane o ancora su un numero di giornate da 120 a 180 che, in ogni officina, ufficio, servizio o impresa, i membri del personale si ripartirebbero in funzione tanto delle esigenze tecnico-organizzative che dei bisogni o dei desideri di ciascuno: l’età, la situazione familiare, la lontananza del posto di lavoro, il progetto di vita.
La questione spinosa dalla cui soluzione dipende la praticabilità di una simile strategia di riduzione degli orari è necessariamente: chi la finanzia e come si finanza.
Ora, le possibili forme di finanziamento della riduzione d’orario sono quattro. Con la prima (costi delle imprese), si avrebbe l’effetto controintuitivo di ridurre l’occupazione e di aumentare gli straordinari e il doppio lavoro (nero). Con la seconda (costi sopportati dai lavoratori), ci sarebbero da temere effetti deflazionistici ove l’aumento delle spese dei nuovi occupati non bilanciasse la decurtazione delle retribuzioni dei già occupati. Con la terza (incrementi di produttività), è evidente che, se un aumento sensibile della produttività attenua certamente il costo della riduzione d’orario, ne limita anche gli effetti positivi sulla nuova occupazione. Con la quarta (sussidi dello Stato), si può legittimamente sostenere che i benefici derivanti dall’incremento dell’occupazione al Bilancio pubblico, sotto forma di minori trasferimenti e di maggiori introiti contributivi, consentirebbero di finanziare il costo dell’operazione. Si tratterebbe però di un finanziamento che andrebbe a detrimento di altre crescenti bisogni sociali.
IN SOSTANZA, E’ NECESSARIA UNA COMBINAZIONE DI QUESTE QUATTRO POSSIBILITA’ CON UN MIX CONRETO E REALISTICO.
Non solo. Bisogna aver presente che un individuo vive mediamente 600mila ore e ne lavora circa 60mila. Se escludiamo 200mila ore dedicate al sonno, il lavoro non incide più del 15% sulle ore nette di veglia. Una percentuale che sale al 30% negli anni in cui è concentrata l’attività. Perché un così accentuato addensamento di tutto il lavoro in sei o sette lustri? Non sarebbe più utile, al contrario, una sua maggiore diluizione attraverso un “orario d’ingresso” per i giovani inferiori alla norma, anziché – come accade oggi – un salario e una qualifica più bassi, e quindi minori diritti? Analogo discorso si potrebbe fare, considerando l’uscita dal lavoro, per gli ultra sessantacinquenni.
Tommaso Basileo