Siamo diventati cibo per algoritmi?
Il motore di ricerca con cui navighiamo on line è un attore talmente potente ed ubiquo che finirà per inghiottire l'umanità intera?
Se McLuhan fosse vivo, se vedesse un’umanità di zombie che si aggirano con lo sguardo
incollato a un gadget digitale, forse sarebbe spaventato nel vedere la propria profezia
avverata all’ennesima potenza?
Tutto è cominciato nel 1998: in un garage di Menlo Park nella Silicon Valley californiana
nasce Google, la creatura di due studenti di Stanford. Anche se i suoi fondatori Larry Page e
Sergej Brinnon non hanno mai avuto il carisma di Steve Jobs, e neppure l’aureola da pionieri di
Bill Gates, dalla nascita di Google hanno costruito un dominio senza uguali nel loro settore
chiave: il motore di ricerca, l’algoritmo con cui navighiamo on line, cerchiamo informazioni,
immagini, musica, divertimento, beni e servizi da acquistare. Molto più fortunati del tipografo
Gutemberg, morto con una pensione pubblica e dopo aver fatto bancarotta. Vent’anni dopo, la
società capogruppo di Google (Alphabet) sfiora i 90.000 dipendenti e vale in borsa 860 Mld di
dollari.
E’ un attore talmente ubiquo che ha ispirato un nuovo verbo nella lingua inglese, to google:
cercare su Internet. Controllare il motore di ricerca, stabilirne i criteri di selezione significa
guidare per mano un bel pezzo di umanità, nella sua attività di conoscenza.
Il Dio della Bibbia di Lutero oggi è Google? O è una risposta parziale al dilemma di Funes
El Memorioso citato a suo tempo da Eco? Non dobbiamo più ricordare tutto, è Google che
sceglie per noi, seleziona, filtra. Ci fa trovare quello che stiamo cercando “veramente”. Finisce le
frasi per noi, indovina la domanda che stiamo formulando prima ancora che abbiamo finito
di digitarla sullo schermo. Perché ha memorizzato i nostri gusti, i nostri interessi, schedando
nella sua memoria illimitata migliaia e migliaia di nostre domande precedenti. Con Google
interloquiamo come tra umani: coglie sfumature, dettagli, espressioni idiomatiche, lessico
familiare, slang e gergo.
Sa tutto, ma ci dice solo ciò che nella sua infinita saggezza ritiene sia l’essenziale per noi. Oppure
– piccola variante – per quelle aziende che vogliono monopolizzare la nostra attenzione, catturare
informazioni su di noi, venderci qualcosa o vendere la nostra identità ad altri.
Che Google sia in grado di esercitare un potere davvero formidabile lo ha capito bene la
Cina. Infatti, per anni gli ha chiuso quasi completamente i cancelli di accesso al “suo”
Internet. I cinesi, quelli che avevano inventato la stampa mille anni prima di Gutenberg, ci hanno
raggiunto e superato nell’uso quotidiano delle tecnologie. Navigano on line più di noi. Con altri
motori di ricerca, altri algoritmi. Altri padroni e maestri.
Il motore di ricerca Google con Google Maps è diventata la nostra bussola: unica mappa privata
del pianeta da quando furono inventate le carte geografiche, ci guida e ci consiglia. Di fatto,
quando viaggiamo, siamo nelle sue mani.
YouTube, è diventato il più grande sito di video mondiale. Il software Android domina negli
smartphone. Le auto con telecamera di Google Maps e Google Earth non si sono limitate a
fotografare strade e piazze per costruire e aggiornare la mappatura delle nostre città. Per anni e
anni hanno spiato anche noi. Spionaggio sfacciato con milioni di vittime, smascherato solo nel
2010, con la causa promossa da 38 Stati USA. 7 milioni di dollari di multa, un’inezia ridicola per
un tale colosso. Più di recente, nel 2018, l’UE infligge una multa molto più sostanziosa di 4,3 Mld
di euro. Sono efficaci queste sanzioni? Cambieranno qualcosa? L’abuso di posizione dominante
cesserà perché Bruxelles picchia duro con le multe? Le “regole comportamentali” possono, forse,
essere più efficaci, ma la fantasia creativa dei giganti digitali escogita sempre nuove soluzioni per
perpetuare il loro potere dominante. Bisognerebbe invocare una cooperazione atlantica, ma
l’Antitrust a Washington è in una situazione di disarmo da qualche decennio, figuriamoci ora con
Trump alla Casa Bianca: il suo isolazionismo, la sua insensata guerra dei dazi e ora la sua poco
credibile azione per arginare la disinformazione riducendo l’immunità legale di chi attacca il
potere dai social.
L’argomento più usato è che questi giganti hanno successo perché offrono il
prodotto/servizio migliore. Ma come fa il consumatore a sapere se non esistano mondi
alternativi? Intanto, però, i giganti fanno incetta di migliaia di brevetti e scoraggiano i concorrenti
più piccoli con la minaccia di processi miliardari. Non a caso, tante start-up innovative
preferiscono vendersi al migliore offerente: “pochi, maledetti e subito”.
Il mercato non esiste in natura. E’ una creazione umana, garantita e protetta dall’intervento
dello Stato e di istituzioni imparziali. Nello “spirito animale” del capitalista c’è l’attrazione
verso il monopolio, situazione teoricamente ideale per massimizzare i profitti. Per questo nacque
l’Antitrust che cominciò la sua attività attaccando i petrolieri, e in seguito smembrò il
monopolista dei telefoni. Alle origini dello Sherman Act (1890) c’era l’idea forte che la
concentrazione economica è una minaccia non solo per la libertà dei consumatori, ma anche
per la libertà dei cittadini.
Quella intuizione è più attuale che mai.
Tommaso Basileo