Ulisse: dal grande mito alla grande pantomima
Una miriade di personaggi e situazioni per raccontare l'eroicomica giornata di un ebreo irlandese, l'agente pubblicitario Leopold Bloom, di sua moglie Molly, il grembo da cui si salpa e a cui si ritorna e l'incontro con Stephan Dedalus. Forse il romanzo più incisivo del Novecento.
“Buck Mulligan...Levò alto il bacile e intonò: - Introibo ad altare Dei”.
Joyce ha travolto per sempre lo schema tradizionale del romanzo del Novecento e ha
aperto la strada a una sperimentazione che non è ancora terminata. Ma nella sua narrazione
tumultuosa ci sono analisi profonde, un’umanità dolente e insoddisfatta, e un’aspirazione a
liberarsi delle ideosincrasie, della banalità del costume, dei vincoli del presente e del passato. Ce
lo ricorda Stephen Dedalus, dialogando col preside della sua scuola: “La storia è un incubo dal
quale sto provando a risvegliarmi”.
Ricordi, scene famigliari, frammenti di appunti, letture perdute, canti popolari,
conversazioni in lingue disparate, elenchi di persone scomparse in luoghi lontani, notizie di
politica internazionale, date storiche, sprazzi di racconti mitologici, riflessioni minute sul
comportamento di un cane, diari di viaggio, intimità smarrite, allitterazioni, associazioni casuali,
onomatopee, borborigmi.
E’ un elenco incompleto degli elementi costitutivi che vanno a formare alcune tra le parti
più originali dell’Ulisse, e in particolare alcuni dei monologhi interiori che ne sono parte
costitutiva. Per la prima volta nella storia della letteratura, i meccanismi associativi del pensiero
dell’uomo vanno a formare la materia prima di un racconto, in un ordine non casuale, con un
ribollire di immagini accumulate in modo apparentemente assurdo e in realtà necessario.
Non diversamente, nella conclusione del romanzo, il monologo di Molly Bloom è un
flusso ininterrotto di pensieri, tutti concentrati però sugli amori, le passioni e soprattutto la vita
sessuale della protagonista, rivisitata dall’adolescenza in poi, con tutti i dettagli più crudi, le
immagini erotiche più sfrontate, le fantasie più sbrigliate di seduzione e prostituzione.
In mezzo, la giornata di Leopold Bloom, ebreo dublinese, piccolo procacciatore di affari in
campo pubblicitario, della moglie Molly, cantante, e del giovane Stephen, insegnante; un
intellettuale inquieto, quest’ultimo, che vive sospeso tra l’attaccamento alla travagliata patria, con
la sua esaperata spiritualità cattolica, l’ardente irredentismo nazionalistico, e il desiderio di nuovi
orizzonti, tra una pietas devota e un sarcasmo distruttivo. “Ucci ucci, sento odor d’irlandesucci”.
Per fare incontrare Bloom e Dedalus dobbiamo prima passare per la mattinata di un
terzetto di giovani bohémien nella torre Martello, il risveglio di Bloom, prima colazione e
funzioni fisiologiche comprese, la sua partecipazione a un funerale, un pranzo veloce, una visita
al museo, uno scontro con un antisemita, una masturbazione sulla spiaggia. E’ durante la visita a
un bordello che i percorsi dei due protagonisti si incrociano, per restare uniti fino al momento in
cui si lasceranno, per andare a dormire.
Il ritorno del moderno Ulisse-Bloom, in attesa dell’incontro con Dedalus-Telemaco, passa
attraverso una pigra quotidianità dublinese, dove gli ostacoli al suo ritorno alla casa-Itaca, dove lo
aspetta la infedele Penelope-Molly sono costituiti non dalla lotta contro mostri mitologici e
popolazioni ostili, ma contro la banalità della vita cittadina di un paese dove la modernità stenta a
farsi strada, perché frenata da un provincialismo bigotto, alcolico e neghittoso. Eppure – come
nell’Odissea Ulisse deve rinunciare al suo ruolo di eroe combattente per poter tornare al suo
destino di re pastore – anche in Joyce la ricerca della via per il ritorno deve passare attraverso
l’esperienza della conoscenza e del dolore, attraverso sconfitte ideali e materiali, attraverso una
maturazione che rende epico anche il romanzo moderno, perché ne fa l’emblema della difficoltà
di essere normali e di accettare la banalità del quotidiano.
Quello che rende unico il romanzo, però, oltre alla dimensione di grande affresco di vita
cittadina e il condensarsi dell’azione in un’unica giornata, è il fatto che ogni episodio viene
raccontato con un linguaggio, un periodare, una struttura narrativa diversa. Si alternano il flusso
di coscienza, il tratto giornalistico, il dialogo in una lingua convulsa, il trattato scientifico, la piéce
teatrale, la poesia in versi sciolti, il manuale divulgativo e l’autoanalisi fluviale. Ogni momento
trova la sua chiave, con un vortice di prospettive che si elidono l’un l’altra, costringendoci a
diventare attori di una commedia della quale dobbiamo quasi recitare una parte. L’Ulisse è
un’”opera aperta”, dove l’intervento del lettore è essenziale, perché l’autore lo costringe a un
ruolo attivo, di costruttore del tessuto narrativo, troppo ricco, variegato e insieme sfilacciato per
vivere da solo.
Nel vortice di una narrazione senza limiti espressivi, in cui la lingua viene usata come un
frullatore, che scompone in frammenti la realtà che costituisce il palcoscenico in cui agiscono i
protagonisti, emergono le potenti rappresentazioni di personaggi archetipici. Se Leopold Bloom è
un uomo tanto indeciso quanto sprovvisto di ambizioni, Stephen Dedalus è invece animato da un
potente impeto giovanile, ma senza obiettivi. Quanto Bloom è intellettualmente vivace, sensuale,
trasandato, pronto a tradire la moglie, e attento scrutatore delle bellezze sulla spiaggia, tanto
Molly è ignorante, pigra al limite del patologico, carnale, infingarda, disordinata, burrosa,
trasgressiva.
Né l’universo che ruota intorno ai protagonisti, né le labili vicende narrate, in fondo, sono
essenziali. Contano la vitalità brulicante di una Dublino piena di contraddizioni, la vita collettiva
che coinvolge mentalità diverse, le mescola e le contrappone, e il tessuto culturale di un paese
dove, malgrado l’isolamento e la chiusura, le contraddizioni della modernità emergono a colori
forti, con una vivacità sorprendente.
Il solo elenco dei protagonisti della sequenza del bordello, narrata in forma teatrale, è
un’antologia preziosa: Biddy Scolo, Kate la stronza, Edoardo VII, la virago, la ruffiana, il Croppy
Boy, un delinquente, la vecchia nonnetta sdentata, e così via. Al centro della scena l’immagine del
sogno di una rivoluzione, quasi un sabba infernale, che travolge Dublino, con sparatorie, uccelli
aggressivi, scontri all’ultimo sangue: “Ragazze operaie vestite alla moda lanciano
barabumbombe. Donne della buona società si sollevano le gonne fino alla testa per proteggersi.
Piovono denti di drago [...]. Padre Malachi O’Flynn in lunga sottana e pianeta messa al contrario,
i due piedi sinistri girati all’indietro, celebra una messa da campo”, mentre il reverendo Haines
Love “solleva da dietro la sottana del celebrante rivelando grigie chiappe nude e pelose tra cui è
infilata una carota”.
Tommaso Basileo